SUPERARE LA MORTE

Da tempi immemori l’essere umano ha tentato di comprendere la natura del proprio esistere e quella della propria coscienza. Prima che la visione del mondo diventasse rigidamente separata tra ciò che è scientificamente accertabile e ciò che è ineffabile, si tramandava l’idea che, nel corso della vita, fosse possibile costruire una sorta di continuità della propria anima. Non un’immortalità nel senso letterale, bensì una persistenza che travalica il mero singolo istante. Una continuità che, proprio come un ponte fra una sponda e l’altra del fiume del tempo, pone le basi per una traccia di sé che perdura anche dopo la dissoluzione del corpo. Questa nozione, oggi considerata forse romantica o metafisica, può essere riconsiderata alla luce di una riflessione che intrecci filosofia e fisica moderna, in particolare le interpretazioni quantistiche della realtà.

Se la coscienza è, come alcuni filosofi e neuroscienziati hanno suggerito, un riflesso complesso del nostro stare al mondo, allora essa si forgia attraverso l’energia, la tensione e l’intenzione con cui viviamo. Ogni esperienza, ogni frammento di memoria, ogni atto di volontà diviene un tassello di un mosaico in continuo divenire. Immaginiamo due specchi posti di fronte l’uno all’altro: la nostra esistenza cosciente si moltiplica in una serie infinita di riflessi; non c’è futuro, non c’è passato, vi è solo un campo di immagini che si riflettono indefinitamente nel presente. Questa metafora, sebbene poetica, rimanda a un’idea ben più profonda: la coscienza come fenomeno che non si limita al singolo istante, ma che perdura in una rete di correlazioni fra stati d’essere.

Nella fisica quantistica, l’atto dell’osservazione provoca il collasso della funzione d’onda. Ciò che prima era un insieme di possibilità, un ventaglio di stati sovrapposti, diviene un evento concreto, definito e attuale. Analogamente, nell’esistenza quotidiana, ogni decisione, ogni intenzione e ogni pensiero “collassa” una nuvola di potenzialità in un momento vivido e irripetibile. Costruire la propria continuità interiore significa dunque generare il collasso dell’onda della propria vita nel solco di uno sviluppo coerente: non una mera sequenza di stati disgiunti, ma un percorso dotato di senso. Allo stesso modo, come le particelle quantistiche possono “entangledarsi”, intrecciarsi in uno stato di correlazione tale che il comportamento di un’entità influisce istantaneamente sull’altra, così le nostre memorie, le nostre relazioni umane, le nostre azioni, lasciano un reticolo di connessioni che concorre a creare una continuità che va oltre il mero attimo fuggente. Questo “entanglement esistenziale” non è soltanto la rete sociale e culturale in cui siamo immersi, ma anche la forma invisibile di scambi simbolici, il nutrimento delle idee e delle narrazioni che ci modellano.

La dimensione temporale, qui, non è più un mero flusso uniforme. La fisica contemporanea, soprattutto nella teoria della relatività, ha ridefinito la nostra comprensione del tempo, mostrandoci come esso possa dilatarsi o contrarsi, come non esista un “presente” universale. Integrando questa visione con quella quantistica, il tempo stesso diventa uno scenario di potenziali attualizzazioni. La coscienza, come un viaggiatore interiore, non subisce passivamente il fluire degli istanti: essa “naviga” attraverso possibilità. Diviene allora sensato dire che costruire la continuità della propria anima corrisponde a una sorta di “operare quantistico” su se stessi, mantenendo la coerenza fra i propri stati interni nel corso del tempo. Non siamo semplici “passeggeri” del tempo, bensì co-creatori di una linea narrativa coerente, intessuta di scelte che vengono a definire l’io e la sua persistenza.

Filosoficamente, questa visione riprende l’antica idea secondo cui l’identità personale non è un dato statico, ma un processo. Il sé è un’opera di tessitura, un farsi continuo, la risultante di molteplici interazioni. Come nella filosofia buddista l’io è una convenzione linguistica, una rete di fenomeni interdipendenti in continua trasformazione, così questa idea di continuità “quantistica” della coscienza suggerisce che la nostra essenza non è data, ma va creata. L’immagine del viandante nel tempo, del pellegrino dell’essere, acquista un senso più ampio: non si tratta di scampare al tempo, ma di operare con esso, influenzandolo attraverso la direzione che diamo al nostro collasso d’onda esistenziale.

In conclusione, l’antico mito della continuità dell’anima può essere riletto oggi non come dottrina metafisica rigida, ma come metafora potentemente attuale per descrivere il processo attraverso cui la coscienza si costituisce e si perpetua. Un processo che, nella sua essenza, ricorda il funzionamento della meccanica quantistica: potenzialità che si concretizzano in eventi, entanglement di memorie ed esperienze, coerenza nel tempo come scelta e creazione piuttosto che subita linearità. In questo senso, fisica e filosofia si incontrano: entrambe ci invitano a guardare oltre l’immediata apparenza, a considerare l’intima tessitura della realtà in cui siamo immersi e di cui, nel nostro piccolo, siamo artigiani.

Sauro Tronconi “Riflessioni sulla morte”

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