Autoconsapevolezza ed evoluzone interiore nell’uomo contemporaneo.
Esiste il destino? Ha senso parlare della società come causa primaria del disagio esistenziale? Può cambiare la società se prima non cambia la coscienza delle persone da cui questa società è formata?
Nel corso dei millenni molte voci hanno affermato che la vita è una possibilità, un viaggio per imparare e per andare verso la nostra evoluzione, dove tutto quello che ci accade è un’opportunità per scegliere la via da percorrere. Ma perché questo accada
occorre avere le informazioni per crescere e la volontà cosciente di farlo.
Prima edizione, EDUP, Roma, 2003; seconda edizione EDUP 2007,
ultima edizione e-book 2020.
INTRODUZIONE
Cosa significa evoluzione?
Possiamo considerare evoluzione dell’uomo lo sviluppo della scienza e della tecnologia?
Se tecnologia e scienza escludono l’evoluzione interiore dell’uomo, la comprensione e lo sviluppo della sua essenza profonda e quindi delle sue facoltà latenti, pensiamo che non si possa parlare di evoluzione. Si potrebbe generare un fraintendimento che porterebbe a conseguenze disastrose per l’essere umano.
Nella nostra cultura si dà rilievo al dimostrare, all’apparire piuttosto che a ciò che è realmente. L’uomo contemporaneo è tenuto ad avere successo, non ad essere un individuo in grado di sviluppare la propria coscienza individuale. Egli è in continua lotta, cerca di raggiungere traguardi e viene continuamente sottoposto ad esami che, come dice un triste luogo comune, nella vita non finiscono mai. Vengono esaminate la memoria, la personalità e le capacità lavorative, mai la crescita interiore.
Accade che, in una società evoluta come quella in cui viviamo, molte persone sembrano avere smarrito la strada, cioè aver perso interessi e motivazioni e, pur convinte di essere individui unici e speciali, in realtà vivono in una sconvolgente uniformità di vedute. Il bombardamento mass-mediatico di modelli legati al potere, all’immagine e al successo ha spinto sempre più persone nel sogno, nell’aspettativa, nel desiderio e nella conseguente frustrazione dovuta all’impossibilità di realizzare quelle che sembrano essere le ambizioni dell’esistenza.
Il palliativo, l’effetto placebo che continuamente ci sentiamo proporre, è la ricerca della distrazione, del divertimento, della vacanza, per non pensare, per “staccare la spina”. Ma, fare una pausa dalla vita, è impossibile. Solo un individuo alienato a se stesso può pensare che questo accada. Il gioco, il divertimento, la gioia di vivere, l’apprezzamento della bellezza e della natura non devono essere “momenti speciali”, di anestesia da una vita che non si vorrebbe vivere, ma l’essenza della vita stessa. Quello che molte persone definiscono “disagio esistenziale”, altro non è che la mancanza di radici interiori, lasciate spesso in balìa di superstizioni o di immagini legate al sentimentalismo.
Molte voci, da millenni, dicono che l’Uomo ha in sé la capacità di evolvere e quindi di sentirsi realizzato nel tentativo di farlo.
Ma se l’uomo ha in sé le capacità per realizzarsi, qual è la causa di un ricorrente senso di fallimento, come se la vita prendesse una strada lontana da ciò che desideriamo, dovuta ad un destino che non possiamo governare, ad una volontà “divina” che non possiamo contrastare, ad una società che frustra i desideri e le aspettative di molti?
La sensazione di malessere, che l’uomo spesso avverte nella società contemporanea, non è solamente un prodotto del nostro tempo: è solo stata resa più evidente da una serie di elementi socio-culturali, che l’ hanno portata a un livello conscio e quindi percepibile.
Nei secoli scorsi, e nelle società contemporanee più povere o meno progredite a livello tecnologico, gli uomini hanno lottato e lottano per sopravvivere, impiegando ogni istante della loro vita per procacciarsi il cibo e proteggersi dalle avversità della natura. In una tale realtà, l’evoluzione della coscienza passa all’ultimo posto, nella gerarchia dei bisogni avvertiti.
Nella società occidentale contemporanea, invece, i problemi legati alla sopravvivenza sono stati risolti, almeno per gran parte della popolazione. Ma questo sembra, per assurdo, quasi aumentare la sensazione di malessere.
Colpevolizzare il progresso, che ha risolto i nostri bisogni primari modificandone la scala gerarchica, non avrebbe senso. Il nostro sistema psicofisico di esseri, che sono anche, ma non solo, animali, pone come priorità biologica la sopravvivenza. L’evoluzione interiore può avvenire solo dopo che l’insieme psicofisico dell’uomo non si debba più occupare della sopravvivenza. Soddisfatti i bisogni primari, il benessere interiore e la piena soddisfazione che nasce dall’essere individui capaci di azioni coscienti, assumono un carattere a loro volta prioritario. Il progresso ha quindi reso visibili problemi da sempre esistiti, anche se meno avvertiti in passato.
Riportare indietro l’orologio del tempo è, oltre che impossibile, insensato: il progresso tecnologico deve andare avanti. Altrettanto inutile è il reiterato lamento nei confronti della società e del prossimo.
E’ possibile trovare le cause e le soluzioni al disagio, cercando di cambiare la realtà in cui viviamo? Può cambiare realmente la società, se prima non cambia la coscienza delle persone che formano questa società?
Abbiamo in noi la possibilità di evolverci, ma tutto questo è subordinato ad avere informazioni giuste, ad avere la mente preparata ad elaborare le informazioni, ad avere coscienza di sé. Molti coltivano una visione romantica e pensano che la coscienza sia un fatto istintivo o addirittura innato nell’essere umano; pensano che l’evoluzione sia loro dovuta, a priori, portata dallo scorrere del tempo. Purtroppo non è così: non basta l’evoluzione tecnologica e non bastano neppure le potenzialità.
Mai come in questo momento è esistita la possibilità di trasmettere e ricevere informazioni; ma, paradossalmente, si dà più importanza al vettore, piuttosto che al contenuto. La visibilità genera riconoscimento e potere e ha valore in sé al di là del reale contenuto. E’ importante far leva su aspettative collettive, su sogni e bisogni, per ottenere approvazione e consenso.
Ma oltre al contenuto spesso manca anche il recettore del messaggio; in altre parole l’uomo contemporaneo non sempre ascolta le informazioni che toccano i suoi schemi preconfezionati, la sua tranquilla visione della realtà, le sue preziose illusioni.
Quindi, la comunicazione procede in automatico verso ciò che l’uomo vuole, continuando a riprodurre schemi automatici e variando solo i vettori.
A questo proposito, René Guénon, accenna ad una riforma della mentalità moderna in questi termini:
“Un solo esempio potrebbe permettere di misurare la portata di tale regresso: la Summa Theologica di San Tommaso d’Aquino era, al suo tempo, un manuale a uso degli studenti; dove sono oggi gli studenti in grado di approfondirla e di assimilarla?”1
In altre parole, sembra che abbiamo imboccato una via decisamente pericolosa di decadenza; il prediligere uno scientismo positivista, che comunque, non soddisfatto, cerca “consolazione” nel sentimento e nell’istinto, significa non creare quelle condizioni intellettuali che permetterebbero all’individuo di elaborare concetti nuovi e di accogliere le informazioni, trasformandole, come un artigiano che produce dalla materia prima il manufatto. Molti fanno risalire la genesi della filosofia e della scienza occidentali alla prima filosofia greca. In quei tempi, era ancora viva l’arte del preparare lo studente alla comprensione, al ragionamento alto.
Nietzche, riferendosi ai presocratici, fa un collegamento tra la loro capacità di pensiero e la loro personalità o carattere, indicando in questo un elemento di stabilità interiore tale da consentire di dirigere l’attenzione verso il proprio pensiero e, quindi, un continuo sviluppo della capacità di comprendere ciò che ci circonda.
Karl Popper, sempre in riferimento ai filosofi presocratici e alle loro Scuole, pensa che sia l’argomentazione critica, teorica e speculativa a far progredire la conoscenza e che la conoscenza stessa si sviluppi solo incrementando le teorie, non l’apparenza.
Parmenide, filosofo greco vissuto fra il VI e il V secolo a.C., avverte di non fidarsi delle percezioni, in quanto mancano di troppi elementi, per poterne trarre un quadro complessivo e reale. Lo stesso Popper interpreta così, questa visione del pensiero parmenideo:
“La radice della degenerazione intellettuale dell’uomo (è) nell’illusoria pretesa di voler attribuire nomi a realtà che non esistono”.2
Quella che Popper chiama “la tradizione della discussione critica”, è semplicemente un differente uso delle capacità umane, è la profonda e antica conoscenza di una nostra peculiarità, la capacità di apprendere, da non confondersi con l’accumulo di informazioni, ma da intendersi come aumento esponenziale della comprensione.
E qui torniamo al concetto iniziale: generare e innescare quel processo continuo di elaborazione che ci permetta di essere di più, di progredire interiormente, di interpretare sempre meglio noi stessi e ciò che ci circonda, di imparare ad accettare, attraverso questo percorso di unità interiore e di centratura, il mutamento continuo; il panta rei di Eraclito, dove tutto muta, ma nel quale ogni mutamento implica qualcosa che, pur cambiando, rimane lo stesso.
Occorre un rapido cambiamento di tendenza nell’atteggiamento dell’uomo verso se stesso; occorre dare il via ad un vero progresso della capacità di comprendere e della coscienza collettiva. Questa è la reale possibilità che abbiamo per superare una divisione interiore altrimenti insanabile. Occorre cominciare a rileggere la storia e la scienza, dando spazio alla coscienza e dando importanza alla visione del mondo che questa genera negli esseri umani.
1 – GUENON R., I simboli della scienza sacra, Adelphi, Milano 1990
2 – POPPER K.R., Il mondo di Parmenide, Piemme, Casale Monferrato, 1998