L’Eclissi del significato nell’era dell’iperinformazione
La prima parola a perdere significato è “guerra“. Ripetuta incessantemente in mille declamazioni, è diventata trasparente, insignificante. Seguono “morte“, “civili“, “bambini“, “deportazione“, “bombardamenti” di ospedali e scuole, di case e supermercati. I numeri dei morti e dei mutilati scorrono senza sosta; a questo si aggiungono la “violenza domestica“, gli ininterrotti “femminicidi“, le “morti sul lavoro“, quelle da “incidenti stradali” e quelle delle “epidemie“. Poi, per ultimi, quelli da denutrizione e mancanza di acqua e farmaci. Potremmo continuare con il “clima” e molto altro.
Ripetizioni continue fino a rendere normale uno stato di cose che normale non è più da molto tempo. Alla trasparenza del significato di tali parole si aggiunge una sorta di fatalismo collettivo, di disimpegno cinico da ciò che pare ormai oltre la nostra comprensione, relegato nell’angolo dedicato al destino. Meglio era quando in causa si chiamavano gli Dèi e le loro stranezze, o quando si andava a consultare i vaticini dell’Oracolo di Delfi: almeno si dava uno spessore a ciò che poteva accadere.
Oggi, immersi in un flusso incessante di informazioni, siamo anestetizzati dalla sovrabbondanza di stimoli. Le parole si accumulano come detriti in una discarica linguistica, prive di peso, prive di sostanza. Ogni tragedia è ridotta a un titolo sensazionalistico, a una notifica sullo schermo dello smartphone. La sofferenza umana è trasformata in dati statistici, in grafici e percentuali che scorrono davanti ai nostri occhi senza lasciare traccia.
Abbiamo smarrito la capacità di stupirci, di indignarci, di provare empatia. L’orrore è diventato routine, la compassione un lusso per pochi. Siamo spettatori passivi di un mondo che si sgretola, intrappolati in bolle di filtraggio che ci mostrano solo ciò che vogliamo vedere. La tecnologia, che prometteva di connetterci, ci ha isolati dietro schermi luminosi. Il progresso, che doveva liberarci, ci ha incatenati a nuove forme di schiavitù.
Nel frattempo, le sfide reali crescono: il cambiamento climatico avanza inesorabile, le disuguaglianze si ampliano, le democrazie vacillano sotto il peso della disinformazione e della manipolazione. Eppure, continuiamo a navigare a vista, affidandoci a parole vuote e promesse vane. La responsabilità è dispersa, la colpa è sempre di qualcun altro.
Le parole, una volta strumenti di comprensione e cambiamento, sono diventate ombre di se stesse. Abbiamo bisogno di riscoprire il loro potere, di restituire loro il significato perduto. Di chiamare le cose con il loro nome, senza edulcorazioni o eufemismi. Di riconoscere che dietro ogni “guerra” ci sono vite spezzate, che dietro ogni “crisi” ci sono volti umani.
Non possiamo più permetterci il lusso dell’indifferenza. È tempo di rompere il silenzio assordante della normalità apparente, di infrangere il muro dell’apatia. Di agire, prima che le parole perdano definitivamente ogni senso e con esse la nostra umanità. Il destino non è scritto nelle stelle, ma nelle scelte che facciamo ogni giorno. E il primo passo è ridare peso alle parole, affinché possano guidarci fuori dall’oscurità dell’oblio collettivo.
Sauro Tronconi