Voglio raccontarti, o mio Re, la storia di due uomini, pressappoco della stessa età che calcarono il suolo in tempi molto antichi.
Il destino aveva riservato loro una vita molto simile, ma un carattere molto diverso.
Sicàd, pur impegnandosi e facendo ogni cosa bene, talvolta come a tutti gli umani accade, anche a te che sei Re, sbagliava oppure qualcosa non andava nel giusto modo. Egli non si adirava e a tutti appariva fermo e contvrollato; ma dentro il suo animo si macerava ed era come se caricasse nella grossa gerla sulle sue spalle un nuovo peso. Quando poi un altro lavoro intraprendeva, questa gerla portava con sé sempre più pesante. Col passare degli anni ogni nuovo lavoro che si accingeva a compiere era più faticoso, più difficile, più stancante. E più facilmente sbagliava e ogni volta che questo accadeva… un altro masso appesantiva la gerla. Si ritrovò all’età di quaranta anni, come scivolato in una china senza fondo: era completamente schiacciato da tutto ciò che sulle spalle aveva accumulato e anche il suo corpo sembrava rigidamente incurvato da quel peso che contraeva i muscoli, impediva il sorgere di nuovi pensieri e faceva della gioia e della leggerezza un ricordo quasi svanito nel tempo.
Varèn, il suo coetaneo, anche lui uomo di grande impegno, in ogni cosa che faceva come tutti aveva successi e sconfitte, ma quando una di queste sconfitte arrivava egli la guardava, la scrutava con attenzione, ne sentiva il peso sulla pelle fino in fondo per non ripetere l’errore, ma poi aveva la forza di lasciarla andare. Manteneva il piacere delle piccole cose, del sorriso di una donna, del vociare dei bimbi, di una conversazione coi vecchi amici. Dal mondo che lo circondava coglieva sempre nuove idee per costruire, lavorare… vivere. Continuava leggero la sua via, con l’esperienza delle sconfitte, mantenendo la testa alta verso il sole e sembrava che man mano che proseguiva il suo cammino, ogni cosa che intraprendeva aveva un sempre migliore risultato.
Quando giunsero, alla loro morte, davanti a quel Dio che doveva decidere, almeno nella leggenda, della loro anima, essi si posero al suo giudizio. Dall’alto della sua bonaria saggezza il Dio, guardandoli, disse loro: “ Sicàd, vai lontano da me, non potrei farmene nulla di un uomo così greve, di un uomo cui la sofferenza è sempre maggiore della gioia, poiché se la sua gioia, fosse maggiore della sua sofferenza egli si sentirebbe stupido e inutile, questa non è la vita di un Dio. Molte volte ancora dovrai calpestare la terra per trarne insegnamento e per scrollarti di dosso quel peso che ha fatto della tua vita un continuo ripetere di sofferenza.”.
Poi rivolto a Varèn: “Vorrei tenerti qui con me, le tue azioni e i tuoi pensieri ne sono degni, ma il mondo ha bisogno di persone che sappiano mostrare con le loro gesta e il loro sorriso, che il buon vivere esiste e a tutti è possibile. Ma so anche che non è al cielo che aspiravi, poiché ovunque sarai saprai nutrirti degnamente di ciò che fai”.
Ricorda, o mio Re, sacerdoti e sovrani danno spesso vita ad un Dio cupo e triste per intimorire e far ubbidire, per inculcare nei sudditi il senso di colpa, perché soffrano e vedano in loro persone da cui farsi guidare perché incapaci di guidare da loro stessi la propria vita.
Ma un Dio non può essere greve, un Dio deve essere leggero per guardare verso il sole o mio Re e un uomo può essere come un Dio solo quando abbandona il suo essere greve e si lascia andare all’esistenza. Egli farà mille cose, avrà mille idee, certo farà qualche errore, ma che importa… costruirà la sua vita. Comprendi o mio Re?