Questa è una vecchia storia di un fanciullo che perse tutto ciò che aveva.
Burikan era nato in una famiglia comune, povera ma capace di dargli quello che gli serviva per vivere, cibo, affetto, esempio di vita.
Un giorno mentre tutti erano seduti al desco per mangiare, un grande temporale si scatenò. Il temporale sembrò più forte di qualsiasi temporale mai visto e tutti la famiglia si radunò vicino al grande fuoco acceso. Solo Burikan corse al desco per prendere la ciotola dove ancora un poco di cibo era rimasto e in quel mentre la terra tremò; sembrava che il suo tremare non cessasse più. Le mura si sgretolarono, il tetto cadde, Burikan si rifugiò sotto il grande tavolo di legno. Quando il Dio della terra decise di far cessare il suo tremore tutta la casa era distrutta. Burikan a fatica uscì da sotto il tavolo, urlava, cercava i suoi cari, scavava con le mani nude. Nessuno gli rispondeva più. Si rese conto che a quindici anni era rimasto completamente solo. Si disperò, pianse tutte le sue lacrime, poi raccolse fra le macerie quel poco che trovò prese un panno, vi mise tutto dentro e si allontanò.
Cominciò a vagare nei paesi vicini, cercava, anche se non sapeva bene cosa o dove cercare. Vide la bottega di un uomo che lavorava il legno, l’uomo lo accolse ed egli si fermò qualche mese presso di lui, gli si affezionò, imparò qualcosa del lavoro. Ma, ormai il falegname, troppo vecchio per lavorare, chiuse la sua bottega e lo dovette allontanare.
Burikan andò da un uomo che lavorava il ferro e anche lì passò un po’ di tempo, imparando, poi anche da lì dovette andarsene. Passarono nella sua vita tanti uomini, tanti mestieri, tante mogli dei suoi padroni che lo accudivano… Passarono tre anni.
Un giorno, quando anche il contadino da cui lavorava lo allontanò perché una carestia non poteva permettergli di sfamare un’altra bocca, Burikan pianse disperato. Raggiunse la riva del Grande Fiume piangendo e si sedette. Il pianto non cessava di far rotolare le lacrime calde sul suo viso. Il tempo era passato, il suo corpo si era allungato, era diventato un uomo, ma tutto era ancora come tre anni prima, solo senza nulla e senza affetti. Continuava a piangere e le sue lacrime cadevano a terra vicino ai sui piedi, venivano assorbite dal terreno e sembrava che ricomparissero a sgorgare dai suoi occhi.
Quando non ebbe più la forza di piangere, andò sulla riva del fiume si guardò nell’acqua. Lavandosi il viso si specchiò, quasi non si riconobbe. Da tanto tempo non si era specchiato e non riconosceva quasi più il suo viso…che in quell’ultimo anno era molto cambiato.
Si guardò ancora e disse a se stesso: “Ma io chi sono? Mi hanno dato un nome, mi hanno detto cosa devo fare, mi hanno dato delle regole… Ma io sono come mio padre, come il falegname, come il fabbro, come il contadino, come le loro mogli, come mia madre, come mia nonna? Ci sono io? Sono forse qualcosa oltre a quello che loro hanno messo dentro di me o sono solo come questa sacca, che contiene le mie poche cose… un sacco che contiene quello che altri vi hanno messo dentro”
Questi pensieri stimolarono di nuovo in lui il pianto. Quando giunse la notte il freddo lo colse, sentì i piedi che gli si intorpidivano, le punte delle dita gelate, il naso freddo, i brividi e intanto pensò… “e questo che cosa è?” e poi ancora alla mattina dopo quando i primi raggi del sole cominciarono a scaldarlo e sentì il piacere del calore, in contrasto col dolore del freddo. Anche tutto questo era quello che gli altri avevano messo dentro di lui?
In quel mentre passò una donna anziana ricurva sotto il peso degli anni, gli si avvicinò e senza nulla dirgli, senza chiamarlo per nome, con la mano gli passò tutto il viso più volte. Burikan sentiva quelle dita ossute che erano per lui le mani più morbide che avrebbe potuto sentire; guardò in alto nel cielo. Quando le mani della vecchia lasciarono il suo viso tornò a specchiarsi nelle acque e ancora disse a se stesso: “No, dentro di me non c’è solo quello che gli altri hanno messo, io sono questo…” disse stringendosi le mani”, io sono il mio viso, io sono la mia carne, io sono il mio piacere e il mio dolore… io sono…”. Non c’èra alcuna definizione adatta. Burikan era semplicemente ciò che era.
Le lacrime scomparvero, il suo viso si rasserenò. Prese le sue poche cose e se ne andò a percorrere una vita che era il viaggio che lui avrebbe di volta in volta scelto.